In Italia, la crisi di derivazione statunitense ha avuto effetti devastanti su tutto l’apparato economico, sociale e politico, eppure il Belpaese non è mai stato eccessivamente influenzato dai mercati finanziari d’oltreoceano, quindi rimane difficile spiegare razionalmente le violente conseguenze subite dalla nostra società; il Regno Unito – per definizione la realtà economica e finanziaria europea più vicina agli USA – è uscito dalla crisi non solo grazie ad una moneta forte, ma anche per effetto di una struttura politico-sociale interna più compatta di quella nostrana.
L’Italia invece, a 10 anni di distanza dalla promulgazione dei primi effetti negativi post crisi dei mutui sub-prime, tutto sembra essere ancora in salita con un debito pubblico rimasto a livelli considerevoli, un prodotto interno lordo stazionario o poco più, un mercato del lavoro sostanzialmente fermo.
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Quali sono le spiegazioni possibili delle situazione Italiana?
1. Il lassismo italiano: il periodo pre-crisi.
Il mercato del lavoro italiano nel periodo antecedente la crisi statunitense aveva un trend tendenzialmente positivo, la svalutazione della Lira ad inizi anni Novanta aveva permesso una ripresa delle circolazioni di capitale e movimentazioni di investimenti diretti esteri, il che aveva garantito alle aziende – in particolar modo a quelle realtà imprenditoriali ‘foreign market oriented’ – un’attività lavorativa continuativa e stabile nel tempo; come è noto, oggi l’unificazione europea in ambito monetario non consente all’Italia alcuna manovra come quella eseguita in passato durante i periodi di stagnazione economica ed occupazionale, ma non è a questo aspetto che si deve imputare ogni colpa che ha generato il blocco del mercato del lavoro.
La principale ragione si configura nella totale incapacità mostrata in passato dal nostro sistema politico, nel predisporre riforme economiche a favore delle imprese e politiche del lavoro strutturali, in grado di garantire risultati validi nel medio-lungo periodo.
Nel periodo pre-crisi, il nostro sistema politico si è accontentato alla vista di un bicchiere mezzo pieno, con una occupazione a livelli non soddisfacenti ma accettabili, affiancato da un’economia in lieve ripresa, senza comprendere che una eventuale crisi avrebbe dilaniato una struttura economica e sociale, già di per sé fragile.
2. Gli effetti del biennio 2008-2009.
La debolezza strutturale del mercato del lavoro italiano prima della crisi economica ha mostrato tutti i suoi limiti ed i suoi difetti: la mancanza di riforme a tutela del buon funzionamento delle attività imprenditoriali e conseguentemente a tutela di tutti i lavoratori implicati nei processi produttivi delle stesse, rappresenta una triste verità venuta a galla troppo tardi per recuperare.
Da qui in poi, si è verificato uno scenario sconfortante, gli investitori iniziano a centellinare le proprie liquidità, il mercato dei consumi resta bloccato, le attività produttive aziendali ferme ed il mercato del lavoro che inizia ad espellere risorse, perché si sa, se il lavoro manca, il lavoratore non è più utile. I dati ancora oggi sono nettamente negativi, la disoccupazione si attesta ben al di sopra dell’11%, in più il nostro Paese ha la più alta percentuale di inattivi in età giovanissima 15-24 rispetto a tutti gli Stati membri dell’Unione Europea e questo per uno Stato moderno, rappresenta già la sua più grande sconfitta.
3) Confronto: Italia e l’Euro-Area.
Il confronto dei tassi di disoccupazione post-crisi con altri Paesi dell’UE è impietoso, al di là di quei Paesi meno industrializzati con una struttura economico-sociale più debole di quella italiana come Grecia e Portogallo, l’Italia si classifica nelle ultime posizioni; significativo il triennio 2011-2014, quando in piena crisi economica si sono persi ben 4 punti percentuali di occupati, mentre la Germania stava riducendo del 29% la sua percentuale di NEET.
4) Politiche per il mercato del lavoro.
Negli ultimi anni qualche progetto concreto è stato portato avanti, con effetti per lo più sommari ed altalenanti, ma questo rappresenta comunque un buon punto di partenza; si è compresa l’esigenza di tutelare le nostre per garantire stabilità ad esse ed al mondo del lavoro, rafforzando la struttura economico-sociale in caso di nuove crisi.
La riforma Fornero si è mostrata inadeguata, tagliare i posti di lavoro permette alle aziende di alleggerire i costi, ma questo ha influito pesantemente sul mercato del lavoro soprattutto per i lavoratori in età 40-60; il Jobs Act sembra garantire risultati più concreti nel brevissimo periodo in particolar modo per i più giovani, ma in diversi casi ha portato condizioni di precarietà e questo non può rappresentare una soluzione risolutiva.
Nell’immediato futuro occorrono nuove politiche che aiutino i giovani nell’inserimento del mercato del lavoro, senza che esse prevedano un ulteriore allungamento dell’età pensionabile per i lavoratori più anziani, con un’adeguata riqualificazione per gli esodati della riforma Fornero.